Acqua in bottiglia o del rubinetto: qual è la scelta migliore?

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Negli ultimi anni, il dibattito sull’acqua in bottiglia rispetto a quella del rubinetto si è intensificato, specialmente a causa delle crescenti preoccupazioni legate all’ambiente e alla salute. L’Italia è uno dei paesi con i maggiori consumi di acqua in bottiglia al mondo. Ma quale opzione è veramente la migliore?

Il consumo in Italia

Secondo l’ISTAT, nel 2022, ogni italiano ha consumato in media 206 litri di acqua in bottiglia all’anno, una cifra significativamente alta rispetto ad altri paesi europei. Ma perché gli italiani continuano a preferire l’acqua in bottiglia?

Uno dei motivi principali risiede nella percezione che sia più sicura e abbia un gusto migliore rispetto a quella del rubinetto. Questa convinzione è spesso legata a una scarsa fiducia nei controlli sulla qualità delle acque pubbliche, nonostante queste siano soggette a rigorosi controlli sanitari. Il Ministero della Salute e le autorità locali monitorano costantemente la qualità dell’acqua del rubinetto, garantendo la conformità ai parametri stabiliti dalle normative europee.

La qualità dell’acqua del rubinetto

Nonostante la diffusa percezione che l’acqua in bottiglia sia migliore, circa il 75% degli italiani riconosce la qualità dell’acqua della propria rete. La maggior parte delle risorse idriche potabili in Italia proviene da falde sotterranee protette, che garantiscono sia la purezza che la sicurezza. Tuttavia, solo il 29% della popolazione sceglie di bere acqua del rubinetto, evidenziando una discrepanza tra la consapevolezza della qualità e le abitudini di consumo.

L’impatto ambientale dell’acqua in bottiglia

Un aspetto cruciale nella scelta dell’acqua sono le ripercussioni che può avere sull’ambientale. L’acqua in bottiglia ha un impatto maggiore rispetto a quella del rubinetto, principalmente a causa della plastica utilizzata e dell’energia necessaria per produzione e trasporto. Al contrario, quella del rubinetto ha un’impronta ecologica molto più contenuta, poiché viene distribuita localmente tramite una rete idrica esistente.

La differenza nei costi

Considerando che una famiglia italiana media consuma circa 200 litri di acqua al mese solo per bere, il risparmio economico permesso dall’acqua del rubinetto può essere significativo. Quest’ultimo, infatti, ha un costo stimato di circa 0,0015 euro al litro, a fronte di un prezzo che varia da 0,20 a 0,50 euro per l’acqua in bottiglia.

In conclusione: quale acqua scegliere?

La scelta dipende da vari fattori, come la percezione personale della qualità, i costi e la consapevolezza ambientale. Tuttavia, i dati mostrano chiaramente che l’acqua del rubinetto è sicura, economica e ha un impatto ambientale significativamente minore rispetto all’acqua in bottiglia. In definitiva, bere acqua dal rubinetto rappresenta la scelta più sostenibile, senza compromessi sulla qualità e sulla sicurezza.

Fast Fashion: qual è l’impatto che ha la moda sulle risorse idriche?  

Fast fashion

L’industria della moda, in particolare quella del fast fashion ha un impatto significativo sull’ambiente e soprattutto sulle risorse idriche globali. Ogni anno tonnellate di acqua vengono usate per produrre vestiti a basso costo, alimentando un modello di consumo non più sostenibile per il nostro pianeta. 

Ma qual è il vero impatto che ha l’industria della monda sulle risorse idriche? 

Il consumo di acqua nel fast fashion 

Il fast fashion, anche detto “moda veloce” si basa su cicli di produzione rapidi e volumi elevati di indumenti prodotti, il che implica un enorme consumo di acqua. Secondo le stime, per produrre una singola maglietta sono necessari 2.700 litri d’acqua, mentre la produzione di un paio di jeans può richiedere fino a 10.000 litri. Anche i processi di tintura di un capo richiedono migliaia di litri di acqua oltre a sostanze chimiche che contaminano le riserve idriche.   

Inoltre, la maggior parte del cotone mondiale viene coltivato in paesi come la Cina, India, Pakistan e Brasile dove l’acqua dolce è già una risorsa limitata.  

Smaltimento dei rifiuti tessili e inquinamento idrico 

 Il fast fashion ha un impatto devastante sulle risorse idriche, non solo per l’enorme consumo d’acqua richiesto durante la produzione, ma anche per l’inquinamento causato dallo smaltimento inadeguato dei rifiuti tessili.

Gli indumenti accumulati nelle discariche illegali come quelle nel deserto di Atacama e a Dandora, una volta inceneriti rilasciano microfibre sintetiche e sostanze chimiche tossiche che si infiltrano nel terreno, contaminando le falde acquifere e compromettendo la qualità dell’acqua rendendola dannosa per gli ecosistemi locali. Inoltre, l’inquinamento delle risorse idriche può anche ridurre la disponibilità di acqua pulita per l’irrigazione e l’agricoltura, creando ulteriori problemi per le comunità locali e la loro sicurezza alimentare.

Ma in che altro modo si possono rilasciare le microplastiche nell’ambiente?  

L’impatto del lavaggio dei tessuti sintetici 

Gli indumenti del fast fashion sono principalmente composti da poliestere e altri materiali sintetici. Questi sono i primi responsabili delle microplastiche rilasciate nell’ambiente. Si stima che un singolo lavaggio può rilasciare fino a 700.000 microfibre che finiscono negli oceani e successivamente nella catena alimentare. L’industria del fast fashion, basata su prezzi bassi e poca qualità, promuove numerosi primi lavaggi. Di conseguenza, si stima che nei fondali marini siano presenti oltre 14 milioni di tonnellate di microplastiche che danneggiano la salute umana in secondo luogo.  

Soluzioni sostenibili per ridurre l’impatto idrico e ambientale 

Per affrontare l’impatto idrico del fast fashion è fondamentale promuovere alcune soluzioni sostenibili:  

  • Acquisti consapevoli: acquistare meno e puntare su capi di buona qualità, che durano nel tempo e contrastano le logiche della produzione intensiva dell’industria del fast fashion. 
  • Materiali sostenibili: preferire tessuti che richiedono meno acqua durante la produzione come il cotone biologico, il lino o materiali riciclati.  
  • Lavaggi meno frequenti: lavare i capi meno frequentemente e a basse temperature riduce il rilascio di microplastiche dai tessuti. Usare sacchetti per il bucato può aiutare a trattenere le microfibre.  
  • Riciclo e riuso: il riciclo e il riuso dei capi aiuta a ridurre i rifiuti tessili e l’inquinamento delle acque. È bene quindi favorire l’acquisto di capi di seconda mano piuttosto che capi fast fashion.  
  • Ridurre i rifiuti tessili: smaltire correttamente i vestiti ma soprattutto donare quelli che non si utilizzano più, riduce l’accumulo dei rifiuti tessili.  

Ognuno di noi può fare la propria parte per ridurre l’impatto sull’acqua e sull’ambiente. Scegliere una moda sostenibile e consapevole contribuisce a tutelare le risorse idriche per le generazioni future.  

Calcare nell’acqua: mito o minaccia per la salute? 

calcare

Il calcare è un deposito di minerali, principalmente costituito da carbonato di calcio e magnesio, che si forma naturalmente quando l’acqua dura evapora o viene riscaldata.  

L’acqua dura è ricca di questi minerali, che vengono disciolti durante il suo percorso attraverso strati di calcare. Il calcare è molto comune nelle aree dove l’acqua ha un elevato contenuto di minerali, e può lasciare segni visibili su superfici come rubinetti, lavandini e bollitori.

Ma che risvolto ha sulla nostra salute?

Il Calcare è nocivo per la salute umana? 

Una domanda frequente è se l’acqua contenente calcare, ovvero acqua dura, sia pericolosa per la salute.  

La risposta è no. In realtà, il calcare non è dannoso per il nostro organismo. Il carbonato di calcio e magnesio presenti nell’acqua dura sono minerali essenziali per la nostra salute. Studi confermano che non vi sono controindicazioni nel bere acqua dura se rispetta sempre i parametri di potabilità stabiliti per legge

Non solo il calcare non è pericoloso, ma il consumo di acqua ricca di calcio e magnesio può addirittura apportare benefici al corpo, contribuendo alla salute delle ossa e riducendo il rischio di malattie cardiovascolari. 

E per le tubature? 

Se il calcare non rappresenta un problema per la salute umana, lo stesso non si può dire per le tubature e gli elettrodomestici. Questo può accumularsi all’interno degli impianti idrici e ridurre la portata dell’acqua, portando a un aumento del consumo energetico e dei costi di manutenzione.  

Col tempo, può causare danni ai rubinetti, agli elettrodomestici come lavatrici e lavastoviglie, e persino agli impianti di riscaldamento. Questi depositi di calcare possono compromettere l’efficienza delle tubature e richiedere interventi di riparazione costosi. La prevenzione e la pulizia regolare delle incrostazioni sono fondamentali per mantenere un sistema idrico efficiente. 

Prevenire ed eliminare il calcare in modo sostenibile 

Esistono diversi modi per prevenire e rimuovere il calcare, molti dei quali rispettosi dell’ambiente. L’uso di filtri anticalcare è una delle soluzioni più comuni. Questi dispositivi, che possono essere installati direttamente sui rubinetti o sugli elettrodomestici, riducono la concentrazione di minerali nell’acqua.  

Altri metodi ecologici includono l’uso di aceto bianco o limone per rimuovere le incrostazioni su superfici domestiche, poiché questi prodotti naturali sono sicuri per l’ambiente e facilmente reperibili.  

Evitare prodotti chimici aggressivi è fondamentale per proteggere sia l’ambiente che la salute umana, garantendo allo stesso tempo una pulizia efficace. 

“Planet vs. Plastics”: la sfida per la Terra e le sue risorse 

Planet vs. Plastics

 Ogni anno, il 22 aprile, nel mondo viene celebrata la Giornata della Terra, un evento dedicato a sensibilizzare e promuovere la protezione nei confronti del nostro pianeta, con particolare attenzione alla sua sostenibilità. Anche per il 2024, il sito ufficiale earthday.org ha scelto e pubblicato il tema centrale dedicato alla giornata: “Planet vs. Plastics”, un richiamo all’importanza del corretto utilizzo e, soprattutto, smaltimento delle plastiche sul nostro Pianeta.  

“Planet vs. Plastics”: come può vincere il nostro Pianeta? 

Il tema di quest’anno, scelto dall’Earth Day Network, è “Planet vs. Plastics” (Pianeta contro Plastica). L’inquinamento plastico, infatti, minaccia la sostenibilità della Terra e, con lei, delle specie viventi che la abitano. Si pensi solo che, dei 7 miliardi di tonnellate di rifiuti plastici che sono stati prodotti finora a livello globale, solo il 10% è stato riciclato correttamente. 

Un rischio, questo, che si ripropone anche sulle risorse idriche presenti nel Pianeta. Ad oggi, si contano circa 50 trilioni di particelle microplastiche nei nostri oceani, un numero che super di almeno 500 volte le stelle nella Via Lattea! 

Parlando di plastica, non possiamo, dunque, ignorare il ruolo cruciale che questa gioca sull’acqua e sul suo ecosistema. Le risorse idriche sono fondamentali per la vita sulla Terra, ma sono sempre più minacciate dall’inquinamento plastico. Secondo le proiezioni degli stock ittici per il periodo 2015-2050, le plastiche supereranno il numero di pesci nei nostri oceani, influenzando la catena alimentare di numerose specie – tra le quali, anche quella degli uccelli marini: il 99% di questi, entro il 2050, ingerirà quotidianamente plastica. 

Una nostra responsabilità 

Ogni azione conta: dalla riduzione dell’uso di bottiglie di plastica all’adozione di prodotti riutilizzabili, possiamo tutti contribuire a ridurre l’impatto della plastica sull’ambiente e proteggere le nostre preziose risorse idriche.  

Sebbene negli ultimi 20 anni il riciclo di plastica sia cresciuto di tre volte tanto (nel 2000 era solo del 3%, a fronte del 10% odierno), dobbiamo impegnarci per un uso più consapevole di questo materiale: ancora oggi, a livello mondiale, vengono acquistate un milione di bottigliette d’acqua ogni minuto

Le piccole azioni contano! Per un cambiamento reale, serve l’appoggio di ognuno di noi. 

Quanta acqua sprecano gli italiani buttando il proprio cibo?  

Acqua spreco

In un momento così complesso e delicato in termini di sostenibilità ambientale, l’emergenza idrica diventa tema centrale di discussione non solo istituzionale ma anche pubblico. I consumatori, infatti, devono necessariamente rendersi conto della propria responsabilità e delle conseguenze legate ai loro consumi e ai loro gesti quotidiani.  

Non tutti sanno, per esempio, che lo spreco idrico domestico è correlato a quello alimentare: attraverso lo studio condotto dall’Osservatorio internazionale Waste Watcher, ad esempio, è possibile conoscere quanti litri di acqua vengono consumati e “buttati” dai cittadini italiani a causa del proprio spreco alimentare. 

Cos’è l’impronta idrica e qual è la sua utilità? 

Al fine di misurare lo spreco di acqua dolce è stato sviluppato il concetto di impronta idrica, un indicatore ambientale che misura il consumo di acqua dolce, in maniera diretta o indiretta, dovuto alla produzione di beni o servizi. Tramite tale dato si quantifica sia l’uso di acqua attribuibile a un singolo individuo, che quello relativo all’uso di un’azienda e di una intera comunità.  

La nascita di questo indicatore è da ricondurre al Prof. Arjen Hoekstrastra e all’Università di Twente nei Paesi Bassi. Infatti, l’impronta idrica rientra in un progetto più ampio che ha dato vita al “Water footprint network”, una piattaforma collaborativa che opera a livello mondiale. Il suo scopo è quello di promuovere delle forme di sviluppo e produzione più sostenibili e che prevedano un uso adeguato, limitato, ma efficiente dell’acqua dolce.    

A quanto ammonta, però, lo spreco idrico registrato dai consumatori italiani? 

Miliardi di litri di acqua sprecati ogni settimana: il contesto italiano 

Di recente l’Osservatorio internazionale Waste Watcher ha condiviso le sue stime sullo spreco di acqua in ambito domestico partendo dai dati sullo spreco alimentare.  

Il report italiano del 2024 ha dichiarato che, dallo spreco del cibo (circa 566,3 grammi pro capite a settimana), derivano circa 151,469 miliardi di litri di acqua.  

Tale cifra è paragonabile ad un consumo di 302,938 miliardi di bottiglie da mezzo litro che, se messe tutte in fila, percorrerebbero la circonferenza del globo per bene quattro volte! Inoltre, ammonterebbero a una spesa, in termine di utenze domestiche, di 395,835 milioni di euro. 

La produzione alimentare, infatti, è strettamente correlata a un utilizzo ingente di acqua ed è per questo che lo spreco di cibo comporta anche quello idrico. Per produrre 200 kg di carne bovina, per esempio, sono necessari circa 3 milioni di litri di acqua. Questo dato rende evidente quanto le decisioni quotidiane relative alle quantità di consumi di determinati alimenti o semplicemente la scelta di gettarli, impatti sull’impronta idrica.

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L’Osservatorio internazionale Waste Watcher, proprio per rendere più consapevoli i consumatori rispetto a questo tema, ha realizzato un’applicazione: lo Sprecometro

Tramite il suo utilizzo, i singoli individui possono stimare l’impronta idrica conseguente al loro spreco alimentare, valutando anche la perdita economica e l’impronta carbonica.  

Inoltre, vengono condivisi con loro contenuti educativi e formativi volti a ridurre gli sprechi e a migliorare le proprie scelte alimentari, proprio al fine di agire sinergicamente verso l’obiettivo 12.3 dell’Agenda 2030: dimezzare lo spreco alimentare.  

Giornata Mondiale dell’Acqua 2024: un’occasione per la pace e la cooperazione 

Ogni anno, il 22 marzo, celebriamo la Giornata Mondiale dell’Acqua, un’importante ricorrenza istituita agli inizi degli anni Novanta dalle Nazioni Unite (ONU). L’appuntamento annuale mira a sensibilizzare e ispirare all’azione per affrontare le sfide legate alla crisi idrica e igienico-sanitaria, portando alla luce ogni anno un nuovo tema centrale. 

Per il 2024, il tema scelto è “Leveraging water for peace” (“L’acqua per il raggiungimento della pace”), un richiamo alla necessità di utilizzare la risorsa idrica come strumento per promuovere la pace e la cooperazione internazionale. 

“Acqua e pace”: il tema scelto per il 2024 

In un particolare periodo geopolitico caratterizzato da crescenti tensioni e da cambiamenti climatici sempre più evidenti, l’acqua riveste un ruolo cruciale nel promuovere la pace e la stabilità.  

Più di 3 miliardi di persone nel mondo dipendono dalle risorse idriche che attraversano confini nazionali: sono 153 i Paesi che condividono fiumi, laghi o falde acquifere, ma solo 24 di questi dichiarano di avere accordi di cooperazione internazionale. La scarsità e l’inquinamento dell’acqua possono, inoltre, aumentare le tensioni tra le comunità e i Paesi, rendendo fondamentale una cooperazione transfrontaliera per affrontare le sfide comuni legate alla gestione delle risorse idriche. 

Idrodiplomazia: utilizzare l’acqua come strumento per la pace

L’idrodiplomazia si configura come un approccio strategico che mira a utilizzare la risorsa idrica come mezzo per promuovere la pace e la cooperazione internazionale.  

La cooperazione in materia d’acqua può, infatti, aiutare le popolazioni a mitigare e ad adattarsi a un clima che cambia, insegnando e provvedendo a gestire tali cambiamenti. Solo nel nostro paese, i tragici eventi dovuti alle alluvioni del 2023 sono costati oltre 400 milioni di euro: la cooperazione in materia di acqua rappresenta, in questi casi, fattore essenziale per la salute umana e per la prosperità pubblica e la lotta allo spreco, nonché una resistenza vitale agli eventi meteorologici estremi. 

Ma l’idrodiplomazia deve tradursi anche su piccola scala, per una “piccola pace”, quella delle comunità locali: la risorsa idrica risulta ancora un tema divisivo che, se non divulgato in maniera corretta, può generare conflitto tra cittadini e istituzioni. Ancora troppo scarsa è la conoscenza della gestione idrica all’interno delle comunità, per questo ogni giorno, come Egato, ci impegniamo a rendere quanto più trasparente possibile il miglioramento del Servizio Idrico grazie al contributo sinergico dei cittadini e dell’Unione Europea. 

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Oppenheimer trionfa agli Oscar: ma quali furono le conseguenze idriche del Progetto Manhattan? 

Progetto Manahattan

La scorsa notte, il film di Cristopher Nolan “Oppenheimer” ha trionfato a Los Angeles vincendo ben 7 premi Oscar su 13. Un eccezionale contributo al cinema dietro al quale si nasconde una storia intricata e controversa, quella del Progetto Manhattan, lo stesso che ha portato alla creazione della bomba atomica. 

Il Progetto, sviluppato durante la Seconda Guerra Mondiale, rappresentò un passo epocale nella storia dell’umanità, ma con esso giunsero conseguenze che spesso restano nell’ombra: quelle sulla risorsa idrica sono solo un esempio 

Il Progetto Manhattan: quali risvolti sulle acque americane? 

Il Progetto Manhattan rappresentava un’iniziativa degli Stati Uniti per lo sviluppo dell’arma nucleare. Condotta in gran segreto durante la Seconda Guerra Mondiale, coinvolse un vasto numero di scienziati, ingegneri e lavoratori impegnati nella produzione di armi atomiche. Tuttavia, nel fervore della corsa all’arma nucleare, la tutela delle risorse idriche non fu una priorità.  

Non vi era un piano definito per proteggere le acque circostanti durante i test nucleari e, infatti, la scoperta di contaminazione delle acque non fu immediata né prioritaria per coloro che organizzarono il progetto. L’attenzione fu rivolta allo sviluppo dell’arma e, sebbene vennero scelti luoghi deserti e lontani dalle cittadine abitate, poco tempo venne dedicato alle considerazioni per le conseguenze ambientali. 

Negli anni successivi ai test nucleari vennero condotti studi e ricerche per valutare l’impatto ambientale delle esplosioni atomiche. Fu così che scienziati e i ricercatori hanno iniziato a rilevare livelli elevati di radiazioni nelle acque superficiali e sotterranee nelle vicinanze dei siti di test, registrando un chiaro segnale di contaminazione. 

Nel monitoraggio e nella verifica della contaminazione delle acque furono coinvolti vari attori, tra cui istituzioni governative, agenzie di protezione ambientale e istituti di ricerca scientifica. Questi utilizzarono tecniche di campionamento e analisi per misurare i livelli di radiazioni nelle acque e valutare il loro impatto sulla salute umana e sull’ambiente. 

Una volta confermata la contaminazione, vennero intraprese misure per mitigare i rischi e proteggere la popolazione e gli ecosistemi dalla esposizione alle sostanze radioattive. Tuttavia, gli effetti a lungo termine della contaminazione radioattiva hanno continuato a rappresentare una sfida per decenni, richiedendo un monitoraggio costante e sforzi di bonifica per ripristinare la qualità delle acque colpite. 

Quali sono gli effetti di una bomba atomica sulle risorse idriche circostanti? 

L’impatto che una bomba atomica può avere sulle risorse idriche circostanti è devastante. Le esplosioni nucleari, infatti, rilasciano una vasta gamma di materiali radioattivi nell’ambiente, tra cui isotopi di stronzio, cesio e plutonio, che contaminano le acque superficiali, sotterranee e marine. 

Le radiazioni provenienti da test e da bombe nucleari contaminano direttamente i corpi idrici vicini, come fiumi, laghi e oceani, rendendoli inadatti all’uso umano e agli ecosistemi acquatici. Le sostanze radioattive possono accumularsi nei sedimenti acquatici e nella catena alimentare, con effetti dannosi su pesci, piante acquatiche e animali che dipendono da tali habitat. 

Inoltre, le radiazioni possono infiltrarsi nel terreno e nelle falde acquifere sotterranee, compromettendo la qualità dell’acqua potabile e l’accesso a risorse idriche sicure per le comunità locali. Le persone esposte a tali contaminazioni possono incorrere in gravi problemi di salute, compresi il cancro, le malattie cardiache e le anomalie congenite, causate dall’assunzione di acqua o cibo contaminati. 

Oltre agli effetti diretti sulle risorse idriche, le armi nucleari sono in grado di produrre un fallout radioattivo che contamina l’aria e le precipitazioni, aumentando ulteriormente il rischio di inquinamento delle risorse idriche attraverso il deposito di radionuclidi sulle superfici acquatiche. 

Oggi celebriamo un film che farà la storia del cinema e ricordiamo la scoperta di uno scenziato che la storia – nel bene e nel male – l’ha gia scritta. Tutto questo, però, ci insegna una lezione: qualunque siano le cause, la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico devono e dovranno essere guidati da un profondo rispetto per l’ambiente e le risorse naturali.

Art4Sea: la consapevolezza attraverso l’arte

Art4Sea

Art4Sea è un progetto nato a febbraio 2022 nell’ambito dei finanziamenti europei del Programma Creative Europe (CREA), che promuove l’incontro di diverse forme d’arte, tra cui quella digitale, performativa, street, urban e la scultura, le scienze naturali, la biologia marina e la tecnologia.

L’intento è quello di aumentare la consapevolezza dell’opinione pubblica e dei privati sullo stato attuale del benessere dei nostri oceani, oltreche informare su inquinamento marino e i cambiamenti climatici. Un’iniziativa che rientra all’interno della cornice della Decade of Ocean Science for Sustainable Development delle Nazioni Unite, ovvero “il decennio del mare”. Dal 2021 fino al 2030, il programma intende guidare i paesi aderenti nel loro percorso di raggiungimento dell’Obiettivo 14 dell’Agenda 2030: Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile.

Art4Sea: conoscere il Mediterraneo

Finanziato nell’ambito del Programma Creative europe (Crea) – Call Crea-Cult-2022-Coop, il progetto vuole essere uno strumento per favorire innovazione e accrescere una Ocean Literacy del Mediterraneo. Sarà implementato attraverso il programma Artists-in-Residence su tre piccole isole del Mediterraneo: Ustica, Alonissos e Gozo.

Sette i partner europei coinvolti: 3D Research (società spin-off dell’Università della Calabria), Atlantis Consulting (società di consulting greca), Bashkia Vlore (città costiera in Albania), Agencia Estatal Consejo Superior De Investigaciones Científicas (il più grande centro di ricerca marina spagnolo), Divers Alert Network Europe Foundation (società che fornisce assistenza ai sommozzatori con sede a Malta), iWORLD (società italiana nell’ambito dell’ICT) e Sebastiano Tusa Foundation (fondazione italiana impegnata nella salvaguardia del patrimonio culturale subacqueo).

Art4Sea prevede momenti di co-produzione, tutoraggio e formazione sia di persona che a distanza, una modalità ibrida pensata per unire il bisogno di avere interazioni fisiche con quello di abbassare i costi e l’impatto ambientale risultato dal dover coprire distanze notevoli con una certa frequenza. Una vera chiamata a raccolta creativa che, attraverso il bando Call Artists in Residence, porterà alla selezione di 24 artisti, per costruire insieme un modello di cooperazione internazionale e multidisciplinare. Otto artisti per ogni isola, scelti tra esperti di arte fisica (arte ecologica, scultura, street art, ecc), fisica subacquea (scultura) e digitale (3D, immagini digitali, AI art, ecc), lavoreranno a stretto contatto con la comunità locale, al fine di creare delle opere che siano il risultato di una vera consapevolezza del territorio.

Le tre tappe del progetto

Il progetto prenderà vita a inizio 2024, con una prima fase dedicata alla formazione degli artisti per quanto riguarda la conservazione delle acque e la creazione di opere davvero sostenibili anche in ambito digitale.

La seconda fase, invece, della durata di 7 giorni, è quella che prevede l’effettiva permanenza degli artisti sulle isole, dove avranno l’opportunità di immergersi nella bellezza di questi luoghi e scoprirne la storia e il patrimonio artistico e naturale, partecipando anche a lezioni e workshop e interagendo anche con la comunità locale.

Infine, l’ultima fase della Call avrà luogo nel 2025, quando le opere fisiche realizzate verranno finalmente esposte, integrandole nei paesaggi marini, naturali ed architettonici di Ustica, Alonissos e Gozo e creando, dunque, dei veri e propri musei a cielo aperto e subacquei.

Le opere, sia digitali che fisiche digitalizzate, verranno presentate online, in una mostra virtuale (su web e Metaverso), e fisicamente sulle tre isole e al Vision Multimedia Center di Vlora, in Albania.

I tre luoghi diverranno, tramite Artists in Residence, un vero e proprio punto di riferimento nell’ambito della preservazione delle nostre acque e, si spera, il punto di partenza per molti altri progetti che, come questo, possano sensibilizzare le persone e creare qualcosa di duraturo e davvero sostenibile.

La Casa dei Pesci: quando l’arte preserva la biodiversità

A Talamone, frazione del più noto comune toscano di Orbetello, si è sviluppato un progetto unico nel suo genere, almeno per quanto riguarda le coste della nostra penisola: La Casa dei Pesci, un museo sottomarino contenente circa 40 sculture.

L’organizzazione non profit, che in questi giorni ha catturato l’attenzione generale, nasce da un’idea di Paolo Fanciulli nel 2006. In quell’anno, insieme a diverse associazioni ambientaliste e alla Regione Toscana, l’uomo si attiva per calare sul fondo del Mediterraneo grosse bitte di cemento, un primo deterrente alla pesca a strascico

L’iniziativa, grazie al suo successo, attira fin da subito le attenzioni dei media su Fanciulli, che si trova a fare però i conti con un’ulteriore realtà, quella della mafia locale. È, infatti, la malavita grossetana che si attiva per impedirgli di continuare la sua attività da pescatore, sperando di far desistere – seppur senza successo – l’uomo. 

Fanciulli, che fin da ragazzo pesca in quelle zone, inizia a opporsi a questa pratica già negli anni ‘80 a causa degli evidenti effetti negativi non solo sul fondale marino ma anche sui piccoli pescatori locali. Proprio per questa ragione, piuttosto che rinunciare al suo obiettivo, insieme all’amico Ippolito Turco, attuale presidente de La Casa dei Pesci, ampliano ulteriormente il loro progetto. Con la speranza di attirare maggiore attenzione ed estendersi oltre le coste di Talomone, i due decidono di includere nell’iniziativa una serie di artisti disposti a creare delle sculture da posizionare sul fondale. 

Per riuscire nella loro impresa, si rivolgono in primo luogo alle cave di Carrara, nella speranza di ottenere alcuni blocchi ma, ben oltre le loro iniziali speranze, Franco Barattini, alla guida della famosa cava Michelangelo, ne dona all’organizzazione ben cento. 

Da quel momento una serie di scultori, tra cui la britannica Emily Young e gli italiani Massimo Catalani, Giorgio Butini, Massimo Lippi e Lea Monetti, come anche altri nomi nazionali ed internazionali, iniziano a realizzare le opere. Oggi se ne contano 40 concluse e altre 12 attualmente in attesa di raggiungere i fondali – che è possibile visitare tramite immersioni solitarie o organizzate. 

ll progetto vuole ispirare la Penisola. La pesca a strascico, pratica che in Italia è illegale entro tre miglia dalla costa o laddove la batimetria è superiore a 50 metri, è infatti tra le pesche più dannose per l’ecosistema poiché danneggiando il fondale ne mette a repentaglio la biodiversità. 

Ad esempio, specie come la Posidonia Oceanica, pianta marina indispensabile per la vita di moltissime specie e in grado di assorbire 15 volte il quantitativo di anidride carbonica assorbito da un’area della stessa dimensione della foresta Amazzonica, continuano a essere  devastate da questa pratica e difficilmente torneranno ad accrescere la loro diffusione. 

Per questo progetti come La Casa dei Pesci, congiunti in una collaborazione diffusa tra pescatori, cittadini e industrie, potranno nel lungo periodo lavorare per la salute dei mari e il ripopolamento dei loro fondali.

Mediterraneo e crescita della temperatura: è un segnale di allarme? 

Temperatura mediterraneo

Con il 2023 abbiamo raggiunto la più alta temperatura mai registrata delle acque superficiali del Mediterraneo. Un picco che raggiunge i 28,4 °C, superando la soglia storica di 28,25 °C registrata nell’agosto del 2003. I dati, registrati dal Servizio europeo per i cambiamenti climatici di Copernicus (C3S), rappresentano una sinesi dell’innalzamento delle temperature che, proprio in questi mesi, ha fatto sì che venisse introdotto nel linguaggio mediale il concetto di “ebollizione globale”. 

Ma quali sono le ragioni dietro il surriscaldamento del mare e degli oceani e quali le sue conseguenze?

Aumenta la temperatura del Mediterraneo: come è possibile?

I picchi registrati durante l’estate del 2023, in particolare nell’Europa Meridionale, si sono tradotti nell’innalzamento delle temperature del Mare Nostrum.  

Tra le principali motivazioni troviamo la crescita delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera, principalmente di anidride carbonica (CO2) derivata dalle attività umane. L’ossidazione di combustibili fossili (come carbone, petrolio e gas naturale) per la produzione di energia, infatti, emettono grandi quantità di CO2 nell’atmosfera. Inoltre, le attività agricole e alcuni processi industriali producono grandi quantità di metano e ossido nitroso, altrettanto nocivi se rilasciati in grandi quantità. 

Questi gas intrappolano il calore proveniente dal sole nell’atmosfera terrestre, amplificando l’effetto serra naturale e provocando un aumento della temperatura globale. Poiché gli oceani e i mari, per natura, assorbono e distribuiscono il calore nel sistema climatico, l’innalzamento dei gradi centigradi ha esiti negativi sul clima del pianeta e sui suoi ecosistemi. 

Quali saranno le conseguenze?

Per avvertire le conseguenze del surriscaldamento dei mari non dovremo guardare a un futuro lontano: in realtà, queste sono visibili già da molti anni e continuano ad amplificarsi e a rendersi sempre più evidenti. 

Se, come anticipato, mari e oceani sono responsabili di regolare il clima globale, allora non sorprende constatare come le più importanti anomalie ad oggi registrate abbiano avuto un impatto sul rischio di nubifragi, sullo sviluppo di piccoli uragani, tifoni e “bombe d’aria“. Come evidenziato dal Scientific Reports di Nature, l’interazione aria-mare influenza il sistema di precipitazione, il suo ciclo di vita, la sua severità e la velocità di propagazione. 

Ma quelle metereologiche non sono le uniche conseguenze. Tra i primi e più evidenti effetti del riscaldamento dei mari troviamo, infatti, il rapido scioglimento dei ghiacci polari e delle calotte glaciali. Questo evento ha portato all’innalzamento dei mari, minacciando le comunità costiere e le infrastrutture. Uno studio condotto dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) ha mostrato che, nel territorio pontino, il lido di Latina, le spiagge di Sabaudia e le zone umide del Parco Nazionale del Circeo rischiano di finire sotto acqua entro la fine del secolo

Non da meno sono gli esiti registrati sull’habitat e sugli ecosistemi. Molte specie animali sono costrette a spostarsi verso zone più fredde per sopravvivere, mettendo a repentaglio la biodiversità. In particolare, a essere sempre più vulnerabili ai cambiamenti troviamo i coralli, minacciati dal fenomeno di “sbiadimento”, o i molluschi e alcune specie di plancton che, a causa dell’acidificazione delle acque dovuta alla crescita della temperatura, vedono danneggiati i propri gusci. A sua volta, questo fenomeno può generare un pericoloso circolo vizioso, basti pensare che, proprio queste specie sono alla base della dieta di molti animali che abitano i mari.

Il cambiamento climatico implica un cambio di passo

La sfida che ci troviamo ad affrontare è molto grande: richiede un impegno totale e congiunto. Ridurre le emissioni di gas serra diventa, dunque, fondamentale. Questo è possibile anche attraverso alcune iniziative autonome come la transizione verso energie rinnovabili, il passaggio ad una mobilità sostenibile e l’integrazione di piccoli gesti di cura e rispetto verso l’habitat che ci circonda. Solo con azioni concrete e costanti, infatti, possiamo sperare di invertire un processo tutt’ora in corso e proteggere l’ambiente marino e terrestre.